L’innesco
Ore quattordici, le due di pomeriggio.
Un orario come un altro.
Attivo l’innesco.
Inizia il conto alla rovescia.
L’ho voluto io.
L’ho pensato per tanto tempo, attimo dopo attimo, valutando ogni aspetto, immaginando, buttando uno sguardo sul futuro, sbirciando con la fantasia sul come sarebbe stato.
Amo l’adesso.
Non il prima, quello è accaduto, né il post, quello è una variabile dipendente da ciò che è ora.
Ore quattordici, lo start, il via, l’innesco.
Come se tutto iniziasse.
Invece è un procedere, il panta rei, il tutto scorre.
A scorrere intanto è l’adrenalina.
Nelle mie vene, mischiata al mio sangue.
Un flash.
Come un’iniezione letale, quattro stantuffi e i veleni, uno dopo l’altro, viaggiano dentro i tubicini e varcano i buchi sulle braccia.
E’ stato un cammino, un progetto, una sfida.
Un lavoro che parte da dentro e si concretizza fuori, il viaggio al contrario, rispetto ai veleni.
Prima le fondamenta, la pietra miliare che segna il lavoro di partenza.
E anche il vessillo da porre in cima all’ultima torre, sulla guglia più alta.
Giorno dopo giorno, un incessante mettere sopra e smussare.
Ma anche il coraggioso smontare per ricostruire.
Togliere prima di aggiungere, pensare a ogni possibilità.
Sempre guardando il vessillo, la bandiera simbolo, lo scopo, il senso di tanto lavoro.
Tanta strada, paesaggi immaginari, a volte brulli, rare le strade dritte, molte salite, i pensieri, le idee, e poi le parole, persino frasi con la punteggiatura.
Una magia dell’umano.
Impasto una sensazione, lievita, s’ingrossa, deve realizzarsi.
Matura, è pronta e diventa un parto.
Con un dolore, l’impasto diventa pensiero.
E il pensiero, parole allineate.
Escono, fuoriescono, non un’esplosione violenta, piuttosto un amorevole guidarli fuori, verso la loro giusta destinazione.
Un tempo lungo prima che tutt’insieme, come tante fila di soldatini in ordine, completino quella sorta di rassegna militare davanti a me, creatore per una volta.
È lì la cattedrale, è lì, e posso mirarla nel suo insieme.
Poi, anche nel dettaglio, nelle sue geometrie, le stanze, gli scomparti, colonne, navate, architravi, pavimenti e soffitti.
Dentro ogni spazio, tutti, ciascun altare, ogni scultura e pittura, poste lì, direzionata a quell’unica volontà.
Tutto, ogni granello di sabbia impiegato, concorre. È proiettato verso lo scopo.
Sono stanco, come un maratoneta ho avvertito la stanchezza poco prima della fine del percorso.
Ho raccolto le forze, tutta la concentrazione destinata a verificare ogni tassello di quell’immenso edificio.
L’animosità è più manifesta nella costruzione di una grande parete, essa soddisfa, è ben visibile, restituisce migliori certezze sulla bontà del lavoro eseguito.
La notte, un meritato sonno ristoratore, quello giusto, quello che spetta a chi ha reso proficuo il tempo.
Ma chi nell’ispezionare sé stesso, il frutto della propria operosità, non si scoraggia, nel scovare nell’infinitesimo ogni sorta di limite, opposto alla perfezione incessantemente anelata?
Chi, scoprendo un primo errore, non ne cerca ancora, trovandone inevitabilmente altri, e poi altri ancora?
Chiunque vorrebbe dalle proprie mani il bello assoluto. Più la dedizione, maggiore è la pretesa di scavalcare il limite umano, giungere in quel luogo riservato a un dio.
Il Coraggio.
Una forza che proviene dal cuore. Non più l’ingegno della mente, la ragione che cerca soluzioni.
E’ l’atto che proviene dai valori dell’amore.
In questo caso verso sé stessi.
Amarsi per darsi una possibilità, per accettarsi imperfetti.
Il coraggio morale, quello che vince la resistenza del proprio io.
Quello mette d’accordo sé con sé stessi, consegna la nostra impossibilità d’infinito a quella scintilla d’eterno che è in noi.
Assieme, le due parti di sé, si convincono a non smettere mai di lanciare il sasso sempre più lontano.
Ore quattordici.
Ho scelto di segnare quel punto, in quella terra ideale, nella mia mente.
In quel punto, il percorso mi ha cambiato.
Alla partenza, all’inizio, all’avvio, il corridore è slanciato, si prefigura all’orizzonte il traguardo, e il momento del traguardo, quello trionfale, quello in cui si dimostrerà più forte.
Perché il corridore del dopo, in quell’istante, ha battuto il corridore del prima, ha vinto la sfida, ha realizzato quell’ipotetico, solo immaginabile.
Ma quando arriva, il corridore, quello che si guarda dentro, trova due consapevolezze. Ha tagliato il traguardo, ma ha scoperto una infinita varianza di sé durante la strada.
Gioisce, ma non è solo il risultato esteriore, non si tratta del percorso esterno, no, è un’altra cosa.
È quello interiore, ha camminato su esso, in parallelo.
Ore quattordici.
Pensavo di sentirmi trionfale, alzare le braccia e poi deporle come l’arma per il cavaliere dopo aver sconfitto il drago.
Ore quattordici, leggo il tasto start.
Pensavo fosse meglio “end”, “last”. Pensavo fosse più giusto. oppure innesco.
Per me, per la circostanza.
Lo guardo quel tasto, lo guardo perché è giusto così, mi va di enfatizzare quell’istante, quello delle ore quattordici.
Un orario come un altro.
“Bizzarro”, mi dico, chissà se il condannato a morte, se gli fosse consentito, vorrebbe avere il diritto di fissare quel tasto, lo start, quello che da avvio alla fine.
Avvio alla fine, il tempo che si rincorre, ogni fine un inizio, ogni inizio succede ad una fine.
Alle quattordici ho premuto quel tasto, innesco avvenuto.
E sono partiti quei stantuffi, i miei veleni sono l’adrenalina che non diminuisce, anzi, è una miscela potente che mi percuote dall’interno.
Un attimo solo prima di premere, non ho più il diritto di fermarmi ancora a guardare.
Solo il tempo, l’attimo della consapevolezza.
Mi concedo, mi soffermo su questo mio desiderio.
“Umano”, mi dico.
Ore quattordici, la mia volontà si concentra sull’innesco.
Ho premuto.
Adesso il mio primo romanzo, le sue sorti, nelle mani di una casa editrice.
L’inizio